Il 17 marzo 1961, Alfredo Dallan detto "il moro", vestito da Garibaldi e in sella al suo cavallo bianco, parte dalla Castagnara per arrivare trionfante in una Piazza Insurrezione (a Padova) gremita. Clicca sull'immagine per ingrandire

Proprio mentre si apprestano a celebrare i 150 anni della fondazione del loro paese, gli italiani sembrano essere sempre meno interessati a conoscere e a riconoscere la loro italianità. Eppure non sono mancati nella storia i momenti in cui il senso di appartenenza civica alla comunità nazionale, e addirittura un vero e proprio sentimento d’amore per la patria, sono emersi ad accompagnare gli avvenimenti del paese, soccorrendolo nei momenti di crisi. Quando scrissi la canzone Viva l’Italia mi era sembrato naturale ricordare quella forte risposta collettiva che l’Italia seppe dare al terrorismo alla fine degli anni 70. Nonostante ciò la canzone, che pure era piena di chiaroscuri e – credo – non del tutto retorica, non piacque a chi nel pubblico aveva sempre considerato i valori patriottici un retaggio reazionario, patrimonio della destra e dei “fascisti” tout court. A nulla valeva ricordare, come feci allora con un mio amico assai politicamente corretto, che la maggior parte delle lettere dei condannati a morte della Resistenza si concludevano proprio con queste parole di invocazione e di consapevole memoria. Niente da fare, nonostante tutto “Viva l’Italia” imbarazzava. Dire o anche solo pensare questa semplice frase poteva essere spiazzante. Rimandava nel migliore dei casi a un Risorgimento polveroso, studiato in fretta in vista dell’esame di maturità e altrettanto frettolosamente archiviato. O magari alla parata militare del 2 giugno, o alla fanfara dei bersaglieri. A nulla di troppo contemporaneo, insomma.
Eppure, in un bellissimo film di grande successo popolare come La grande guerra c’è molta patria. Due improbabili eroi, che per tutta la durata della pellicola sembrano spalmati sui peggiori stereotipi dell’italiano furbo e un po’ vigliacco, si fanno fucilare dagli austriaci pur di non tradire il proprio paese. E il contractor Fabrizio Quattrocchi (e qui non siamo in una fiction), prima di essere giustiziato in Iraq da un gruppo terroristico, grida una frase – “Adesso vi faccio vedere come muore un italiano” – che potrebbe essere l’invocazione di un eroe risorgimentale o di un martire di via Tasso. Quattrocchi verrà insignito di medaglia d’oro al valor civile, e questa decisione sarà accompagnata da incomprensibili e indegne polemiche. Se ci chiediamo il perchè di tutto ciò, le risposte possono essere infinite e anche vagamente imbarazzanti. Certo è mancato nella storia del nostro paese l’equivalente della Rivoluzione francese, quel momento fondativo in cui popolo, Stato e nazione si autoidentificano e scrivono insieme le proprie leggi. Anche la Resistenza, che sta alla base della nostra attuale Costituzione e che pure fu guerra di liberazione nazionale, non sempre condivise in maniera univoca il progetto di una nuova Italia. Né mancarono episodi come quello di Porzus in cui la Resistenza tradì se stessa insieme ai valori della patria.
Ma davvero dobbiamo rassegnarci a una visione di noi stessi così negativa, davvero dobbiamo ringraziare solo il famoso stellone per tutto ciò che di straordinario l’Italia rappresenta ancora oggi agli occhi del mondo? In realtà gli uomini che combatterono per l’unità d’Italia furono in larga parte coraggiosi e lungimiranti, ebbero fin da allora un’idea attualissima (seppure anche in quel caso non sempre omogenea) del nuovo paese che stavano disegnando. Sacrificarono generosamente la loro esistenza, e in molti casi la loro vita, a un ideale di Stato democratico che nella sua compiuta realizzazione collocò 150 anni fa l’Italia a pieno titolo nel novero delle moderne nazioni europee. Certo, non viene in soccorso alla nostra autostima scoprire nel libro di Aldo Cazzullo che forse il nostro inno nazionale è frutto di un plagio, che la contessa di Castiglione non fu esattamente una Giovanna d’Arco, che non sempre gli uomini del Risorgimento seppero essere, in pubblico e in privato, all’altezza del loro ruolo. Ma veramente possiamo ricondurre la frastagliata e travagliata storia del nostro Risorgimento ai suoi aspetti meno nobili? O, peggio ancora, imputargli, come qualcuno tenta di fare, addirittura il “genocidio”, culturale e non solo, delle popolazioni del Mezzogiorno? E la Resistenza va davvero riletta al contrario, confondendo ruoli e valori opposti, ricomponibili forse sul piano umano, ma certamente non su quello del giudizio storico definitivo? Ma nell’Italia di oggi, dove il tema stesso dell’unità del paese è oggetto di discussione e una crisi profonda sembra attraversare tutte le istituzioni, forse dovremmo ricordarci che non è una buona idea quella di buttare via il bambino con l’acqua sporca. Specchiarci in noi stessi e ripercorrere le tappe che ci hanno portato fin qui può essere a tratti difficile e non sempre gratificante: ma una lettura disincantata (e non necessariamente priva d’orgoglio) della nostra breve storia d’italiani dobbiamo permettercela. Forse non basta a risolvere i problemi che ci stanno davanti, ma serve.