E’ ora di dire qualche spiacevole verità sulla guerra in Afghanistan. Non sull’onda dell’emozione per gli ultimi morti, che non saranno gli ultimi. Ma sull’onda della ragione: inclusa la ragion di stato.
E’ discutibile che fosse un obiettivo sensato andare in Afghanistan, sapendo di colpire soprattutto la popolazione civile, per stanare Bin Laden e distruggere al-Qaeda.
Tuttavia l’invasione dell’Afghanistan, per essere una guerra, era nata bene: nel pieno di una ondata emotiva mondiale, che aveva scosso il globo a seguito degli attentati dell’11 settembre. Con un obiettivo relativamente preciso: sconfiggere quel terrorismo. Con un consenso e una coalizione vastissima, che includeva non solo l’occidente, ma anche molti paesi musulmani, per i quali il terrorismo islamico di Bin Laden era un nemico anche più pericoloso che per noi: perché – cosa che gli occidentali non ricordano – ha mietuto più vittime nei paesi musulmani che nello stesso occidente; e perché – come infatti è successo – rischiava di appiattire l’immagine dell’islam nel mondo sulle sue imprese assassine.
Ciononostante la missione in Afghanistan è fallita. Non solo perché ha mancato il suo principale obiettivo: Bin Laden vive ancora sereno e felice da qualche parte, probabilmente in quelle zone, e la minaccia terroristica globale è aumentata, non diminuita. Non solo perché ha mancato anche l’obiettivo collaterale, su cui l’occidente aveva investito, propagandisticamente, parecchio: portare la democrazia e magari l’emancipazione femminile in un paese che vive invece una situazione di guerra tribale permanente – dominata dagli interessi legati all’oppio, la cui produzione è aumentata esponenzialmente – e in cui la donna vive nella stessa situazione di sempre. Ma perché si è trasformata progressivamente in altra cosa.
Primo: come tutte le guerre, è durata assai più a lungo del previsto. Semmai stupisce che l’umanità continui a credere nelle bugie della guerra lampo che lei stessa si racconta.
Secondo: i danni e le vittime collaterali – che poi sono uomini, donne, bambini, preferibilmente civili – sono aumentati a dismisura. Così come le vittime tra i militari occidentali, americani soprattutto.
Terzo: i costi sono lievitati enormemente, e come sempre accade nel nostro paese senza alcuna discussione sul senso e sull’utilità dei medesimi.
Ma più di tutto è diventata politicamente altra cosa. Dal momento dell’invasione americana dell’Iraq quello in Afghanistan non è stato più un obiettivo locale, supportato da una ‘coalizione di volonterosi’, ma una pedina di un conflitto globale. Non è dal momento in cui Obama ha ribadito che se ne sarebbe andato dall’Afghanistan al più presto che quel conflitto ha cambiato natura (persino Bush aveva parlato di ‘exit strategy’, e non poteva del resto fare altrimenti): ma dal momento in cui, con l’invasione dell’Iraq, la ‘war on terror’ è diventata ‘war on islam’, e le ragioni geopolitiche e ideologiche degli Stati Uniti hanno di gran lunga sopravanzato quelle originarie, che interessavano il globo e non solo gli Usa. È allora che sarebbe dovuto cominciare, anche in Italia, un dibattito sul senso della nostra presenza in Afghanistan: a difesa di quali interessi?
Di fronte a questo, e a un prevedibile ritiro americano che prevedibilmente non avverrà nel 2011 come preannunciato, è semplicemente surreale che da noi si parli di dotare di bombe i nostri aerei, o si accetti senza discussione il continuo aumento del costo umano ed economico della missione.
La missione è fallita: e per una volta non per responsabilità primariamente italiane. Lo si ammetta, si collabori alla costruzione di qualche significativa struttura di pace, e poi tutti a casa, e il più in fretta possibile.
Stefano Allievi